Da Brasile-Germania 1-7 a Bayern-Barcellona 8-2. Figli di Lutero, i tedeschi detestano il commercio delle indulgenze. Hai peccato? Devi pagare fino in fondo; al diavolo grazie, sconti, condoni. Così fu a Belo Horizonte, così è stato a Lisbona. Il Bayern di Flick: e non di Guardiola. Di un carro attrezzi precettato d’urgenza. C’è sempre da imparare.
Uno scarto epico, una vittoria storica, una sconfitta mortificante. Mai come in questo caso gli estremi si toccano e l’enfasi ha diritto di cittadinanza. Non è stata una partita, è stato un massacro, salvo le scaramucce introduttive, quando la difesa zemaniana dei bavaresi aveva rimesso in gioco i troppi Ronzinante di Messi. Ma se il Bayern difendeva alto, il Barça proprio non difendeva: e questo, nonostante il 4-4-2 di Setien, povero vaso di coccio, con Sergi Roberto al posto di Griezmann.
Ricapitolando: Thomas Muller, autogol di Alaba, Perisic (ala pura, non «a tutta fascia» come nei piani di Conte), Gnabry, ancora Muller, poi Suarez, quindi Kimmich (il terzino destro, su azione garrinchana di Davies, canadese, 19 anni, il terzino sinistro), Lewandowski e due volte Coutinho. A parlare di dominio fisico, tecnico e tattico si rischia di fare la figura degli scappati da cattedra. E allora mi fermo.
A Messi era bastata una mezz’oretta, contro il Napoli. A 33 anni, i dribbling cominciano a pesare, come per Cristiano: soprattutto nel deserto (dal ter Stegen dei piedi ingessati al Vidal scomparso, per tacere di Lenglet e Piqué). Ma ripeto: sarebbe come sparare sulla croce rossa.
Pure io avrei scommesso su coloro che nel Novecento chiamavamo panzer, e che oggi attaccano alternando le sportellate al palleggio fino. Eppure, al di là di tutto quello che è successo, e non mi sembra poco, per la Champions continuo a dire City.